Ricorso della Regione Toscana, in persona del Presidente pro tempore, autorizzato con delibere della Giunta regionale n. 833 del 3 ottobre 2011 e n. 962 del 9 novembre 2011, rappresentato e difeso, per mandato in calce al presente atto, dall'avv. Lucia Bora, domiciliato presso lo studio dell'avv. Marcello Cecchetti, in Roma, via A. Mordini 14. Contro il Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore (per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale degli artt. 3, comma 4; 5-bis; 8, commi 1, 2 e 2-bis; 11; 16, commi 1, 3, 4, 5, 7, 8, da 10 a 15, 16, 17 lett. a), 19, 20, 21 e 28, del decreto-legge n. 138/2011, cosi' come convertito dalla legge di conversione 14 settembre 2011 n. 148, per violazione degli artt. 3, 39, 97, 114, 117, 118, 119 e 120 e 133 cost. anche sotto il profilo di violazione del principio della leale collaborazione. Sulla Gazzetta Ufficiale - serie generale n. 216 del 16 settembre 2011 e' stata pubblicata la legge 14 settembre 2011 n. 111 di conversione, con modificazioni, del decreto legge 13 agosto 2011 n. 138 recante Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo. La Regione con delibera della Giunta regionale n. 833/2011 ha deciso di impugnare gli artt. 3, comma 4; 5-bis; 8, commi 1, 2 e 2-bis; 11 e 16, commi 1, 3, 4, 5, 7, 8, da 10 a 15, 16 e 28, in quanto direttamente lesivi delle prerogative regionali costituzionalmente garantite. Il Consiglio delle Autonomie locali della Toscana, istituito con l.r. n. 36 del 21 marzo 2000, con risoluzione del 3 novembre 2011 (doc. n. 1) ha avanzato - ai sensi e per gli effetti di quanto disposto dall'art. 9, comma secondo, della legge n. 131/2003 - al Presidente della Giunta regionale la proposta di impugnare alla Corte costituzionale l'art. 16, commi 1, 3, 4, 5, 7, 8, da 10 a 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, con analitiche e puntuali motivazioni che la Giunta regionale ha condiviso, come risulta dalla deliberazione n. 962/2011 che autorizza la proposizione del presente ricorso anche per i profili evidenziati dal predetto Consiglio. Cio' in quanto l'art. 16 citato prevede, in modo del tutto illegittimo ed illogico, come verra' dimostrato, forme associate obbligatorie per l'esercizio di tutte le funzioni ed i servizi con riferimento ai Comuni con popolazione inferiore a 1000 abitanti, cosi' violando non solo le competenze regionali esclusive in materia di ordinamento degli enti locali e ledendo le prerogative regionali con riferimento alle funzioni amministrative spettanti alle Regioni nelle materie di cui all'art. 117, commi 3 e 4, ma ledendo anche l'autonomia costituzionalmente garantita degli enti locali. La Regione e' quindi sicuramente legittimata a proporre la presente impugnativa per la lesione diretta subita dalle norme contestate, ma lo e' anche per le incidenze che detta normativa ha sull'azione degli enti locali (si veda in tal senso la sentenza della Corte costituzionale n. 417/2005). Sotto questo profilo, infatti, l'art. 118 cost. attribuisce alla Regione il ruolo (insieme allo Stato) di «allocatore» delle funzioni amministrative, per cui una norma che ponga vincoli incostituzionali all'esercizio delle funzioni degli enti locali incide illegittimamente su detto ruolo regionale, oltre che sul ruolo della Regione di rappresentante generale degli interessi della popolazione regionale. Piu' in particolare, poiche', in applicazione dell'art. 118 Cost., la Regione e' tenuta a trasferire agli enti locali le funzioni amministrative, restando titolare del potere di legislazione e programmazione, e' evidente che l'autonomia regionale e' collegata alla efficienza dell'amministrazione locale, restandone a sua volta condizionata. Percio' ogni limite all'efficienza dell'amministrazione locale si riflette negativamente sull'attuazione delle politiche della Regione e quindi sulla sua autonomia. Tanto Premesso, le disposizioni impugnate sono incostituzionali per i seguenti motivi di Diritto 1) Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 4, nella parte in cui prevede che l'adeguamento degli ordinamenti regionali al principio della liberalizzazione delle attivita' economiche costituisca elemento di valutazione della virtuosita' ex art. 20, comma 3, del d.l. 98/2011, per violazione degli artt. 117, commi 3 e 4 e 119 Cost. L'art. 3, comma 4 stabilisce che l'adeguamento delle Regioni al principio liberista previsto dallo stesso art. 3, comma 1, rappresenti un ulteriore parametro per la valutazione della c.d. «virtuosita'» degli Enti territoriali, secondo il meccanismo introdotto per la prima volta dal combinato disposto dei commi 2 e 3 dell'art. 20, d.l. 98/2011, in base al quale - al fine di ripartire l'ammontare del concorso alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica fissati, a decorrere dall'anno 2012, tra gli enti del singolo livello di governo - i predetti enti sono ripartiti (con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dell'interno e con il Ministro per gli affari regionali e per la coesione territoriale, d'intesa con la Conferenza unificata) in quattro classi, sulla base di parametri di virtuosita' ivi stabiliti. Secondo il citato art. 20 comma 3, in particolare, «gli enti che, in esito a quanto previsto dal comma 2, risultano collocati nella classe piu' virtuosa, fermo l'obiettivo del comparto, non concorrono alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica fissati, a decorrere dall'anno 2012, dal comma 5, nonche' dall'art. 14 del decreto-legge n. 78 del 2010. Gli enti locali di cui al primo periodo conseguono l'obiettivo strutturale realizzando un saldo finanziario pari a zero. Le regioni di cui al primo periodo conseguono un obiettivo pari a quello risultante dall'applicazione alle spese finali medie 2007-2009 della percentuale annua di riduzione stabilita per il calcolo dell'obiettivo 2011 dal decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133. Le spese finali medie di cui al periodo precedente sono quelle definite dall'articolo 1 commi 128 e 129 della legge 13 dicembre 2010, n. 220. Inoltre, il contributo dei predetti enti alla manovra per l'anno 2012 e' ridotto con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, d'intesa con la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, in modo tale che non derivino effetti negativi, in termini di indebitamento netto e fabbisogno, superiori a 200 milioni di euro». Ebbene, nel caso di specie, come detto, l'articolo 3 comma 4 prevede che l'adeguamento di Comuni, Province e Regioni al principio (stabilito al comma 1 della stesso articolo 3 del d.l. 138/2011) secondo cui «l'iniziativa e l'attivita' economica privata sono libere ed e' permesso tutto cio' che non e' espressamente vietato dalla legge», costituisca elemento di valutazione della virtuosita' dei predetti enti: e' di tutta evidenza che il legislatore, con l'art. 3, comma 4 qui contestato, ha individuato, quale ulteriore parametro di virtuosita', un elemento del tutto estraneo alle finalita' di coordinamento della finanza pubblica ed ha quindi esorbitato dai limiti che il legislatore statale incontra in tale materia. Infatti l'istituto della virtuosita', nato nell'ambito del contenimento e razionalizzazione della spesa pubblica, nel caso in esame diviene uno strumento di «coartazione» della volonta' delle Regioni, che prescinde totalmente dalle finalita' di coordinamento della finanza pubblica. In altri termini, con la disposizione in oggetto si ha l'effetto di vincolare l'esercizio della potesta' legislativa regionale, in materia di competenza delle Regioni, per finalita' del tutto estranee all'obiettivo di contenimento della spesa, in tal modo realizzandosi una surrettizia ed inammissibile ingerenza dello Stato nella sfera delle attribuzioni legislative regionali, sia concorrenti che esclusive; cio' in violazione degli artt. 117, commi 3 e 4, e 119 Cost. 2) Illegittimita' costituzionale dell'art. 5 bis nella parte in cui prevede che le maggiori possibilita' di spesa riconosciute ad alcune regioni del Sud (c.d. Regioni dell'obiettivo convergenza) siano compensate con maggiorazione degli oneri posti a carico di tutte le altre regioni, per violazione dell'art. 119, comma 3 e 5, Cost. L'art. 5-bis del d.l. 138/2011, introdotto con la legge di conversione, rubricato «Sviluppo delle regioni dell'obiettivo convergenza e realizzazione del Piano Sud» stabilisce che la spesa in termini di competenza e di cassa effettuata annualmente da ciascuna delle cinque Regioni inserite nell'obiettivo convergenza (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia) a valere sulle risorse del fondo per lo sviluppo e la coesione (ex fondi FAS), sui cofinanziamenti nazionali dei fondi comunitari a finalita' strutturale, nonche' sulle risorse nazionali per la programmazione unitaria sulle risorse per la programmazione unitaria di cui all'art. 6-sexies del decreto-legge 112/2008 (inserito dalla legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133), possa eccedere i limiti di spesa imposti dal Patto di stabilita' Interno (comma 1). In conseguenza di cio', al successivo comma 2 dello stesso articolo, e' previsto che «al fine di salvaguardare gli equilibri di finanza pubblica, con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro per i rapporti con le regioni e per la coesione territoriale e di intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano da adottare entro il 30 settembre di ogni anno, sono stabiliti i limiti finanziari per l'attuazione del comma 1, nonche' le modalita' di attribuzione allo Stato ed alle restanti regioni dei relativi maggiori oneri, garantendo in ogni caso il rispetto dei tetti complessivi, fissati dalla legge per il concorso dello Stato e delle predette regioni alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica per l'anno di riferimento». E' evidente che tale disposizione, oltre a creare una forte disparita' tra le regioni che potranno e quelle che non potranno escludere dal Patto di stabilita' le spese a valere sui fondi suddetti, compie una operazione incostituzionale, allorche' prevede che i maggiori oneri derivanti dall'applicazione del comma 1 dell'art. 5 bis siano posti a carico anche delle regioni escluse dall'obiettivo convergenza. La norma in esame infatti conferma in ogni caso l'obbligo di garantire gli equilibri di finanza pubblica, cosicche' le piu' ampie possibilita' di spesa riconosciute alle cinque regioni in obiettivo convergenza andranno compensate con i maggiori oneri che sono accollati anche alle restasti regioni. La previsione in esame si traduce in una violazione dell'art. 119, commi 3 e 5, cost. perche': l'incidenza della spesa per i fondi FAS e' molto piu' elevata per le cinque Regioni dell'obiettivo convergenza rispetto a quella delle altre Regioni (12.350.636 milioni di euro per le cinque Regioni, di contro a 4.675.955 per tutto il Centro-Nord, come si evince dalla delibera CIPE 11.1.2011 - pubblicata in Gazzetta Ufficiale 7.4.2011 n. 80 - che contiene la tabella delle risorse FAS 2007-2013 per le varie Regioni). Percio' riequilibrare lo sforamento del tetto del Patto di stabilita' rispetto a tale ingente cifra determinera' rilevanti oneri per le Regioni del Centro-Nord, in violazione dell'art. 119, comma 3, Cost.; inoltre, lo Stato impone, illegittimamente, una forma del tutto impropria di solidarieta' tra le Regioni, al di fuori dello strumento della perequazione, cosi' come disciplinato dal comma 3 dell'articolo 119, secondo cui: «la legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacita' fiscale per abitante», strumento gia' compiutamente delineato dalla legge 42/2009 per l'attuazione del federalismo fiscale. Lo Stato ai sensi dell'art. 119, comma 5, della Costituzione, ha il potere-dovere di promuovere lo sviluppo economico e di rimuovere gli squilibri economici e sociali che affliggono determinati territori, e proprio a questi scopi puo' destinare risorse aggiuntive ed effettuare interventi speciali. E tuttavia gli strumenti per l'attuazione dell'art. 119 sono stati piu' correttamente definiti dall'art. 16 della legge 5 maggio 2009, n. 42, che infatti, al comma 1, lettere a) ed e) - laddove detta i limiti per il legislatore delegato - stabilisce che detti contributi speciali siano utilizzati secondo obiettivi e criteri definiti d'intesa con la Conferenza Unificata, ma pur sempre restando a carico del bilancio dello Stato. Ne' il decreto legislativo 31 maggio 2011, n. 88, emanato nell'esercizio della delega legislativa, prevede meccanismi di redistribuzione degli oneri finanziari, in alcun modo assimilabili a quelli oggetto della contestata disposizione. E' del tutto evidente che con l'art. 5 bis del decreto-legge 138/2011, viene costruito un meccanismo negativo, in cui la spesa per gli investimenti finalizzati allo sviluppo di alcune Regioni e' posta a carico delle altre Regioni. Secondo il dettato costituzionale, gli oneri (siano essi finanziari, o come in questo caso, in termini di minori possibilita' di spesa) necessari allo sviluppo delle Regioni meno avanzate devono essere sostenuti dallo Stato, ai sensi dell'art. 119, comma 5 della Costituzione; la solidarieta' tra le Regioni puo' e deve trovare realizzazione mediante uno strumento ben preciso, indicato dall'articolo 119, comma 3, ossia il fondo perequativo. L'art. 5-bis qui contestato contrasta con entrambe le citate disposizioni. La rilevata incostituzionalita' della norma non appare superata ne' superabile per il fatto che - in base a quanto disposto dalla norma che qui si contesta - anche lo Stato concorrera' ai maggiori oneri, ne' tanto meno dalla previsione dell'intesa in sede di Conferenza Stato - Regioni per il riparto tra le varie Regioni di detti oneri: a quest'ultimo proposito infatti si Osserva che l'intesa non interviene sull'an dell'attribuzione alle Regioni estranee all'obiettivo convergenza dei maggiori oneri ma riguarda esclusivamente le modalita' di attribuzione a ciascuna Regione di detti maggiori oneri, vertendosi quindi solo in punto di quantum, fermo restando, in ogni caso, «il rispetto dei tetti complessivi, fissati dalla legge per il concorso dello Stato e delle predette regioni alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica per l'anno di riferimento». In altri termini, non puo' ritenersi sufficiente la previsione da parte dello Stato dell'intesa con le Regioni in quanto, nel caso di specie, l'intesa consente alle stesse di intervenire solo sulle modalita' di attribuzione alle Regioni dei maggiori oneri, mentre sono proprio questi ad essere costituzionalmente illegittimi. Non e' ammissibile che, ricorrendo ad uno strumento quale l'intesa in Conferenza Stato-Regioni (sede in cui si realizza la collaborazione e la concertazione istituzionale, non pero' lo stravolgimento di ogni regola e competenza), lo Stato possa eludere i propri doveri costituzionali, riversandone la responsabilita' sulle Regioni, e ponendole in competizione tra loro sul delicatissimo terreno dello sviluppo. 3) Illegittimita' costituzionale dell'art. 8, commi 1, 2 e 2-bis, nella parte in cui prevede la realizzazione di specifiche intese a livello aziendale e/o territoriale che possono operare in deroga alle leggi statali e regionale nonche' ai contratti collettivi nazionali, per violazione degli artt. 39, 117, comma 3 e 118 cost. e per violazione del principio di leale collaborazione. L'art. 8 del decreto legge in esame, cosi' come risulta dalla legge di conversione, e' inserito nel Titolo III concernente le misure a sostegno dell'occupazione e si occupa in particolare del sostegno alla contrattazione collettiva di prossimita'. Per quanto qui rileva, la norma dispone «I contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei lavoratori comparativamente piu' rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti, compreso l'accordo interconfederale del 28 giugno 2011, possono realizzare specifiche intese con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali, finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualita' dei contratti di lavoro, all'adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitivita' e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all'avvio di nuove attivita'. Le specifiche intese di cui al comma 1 possono riguardare la regolazione delle materie inerenti l'organizzazione del lavoro e della produzione con riferimento: a) agli impianti audiovisivi e alla introduzione di nuove tecnologie; b) alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale; c) ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarieta' negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro; d) alla disciplina dell'orario di lavoro; e) alle modalita' di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio, il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio, il licenziamento della lavoratrice dall'inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione al lavoro, nonche' fino ad un anno di eta' del bambino, il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore ed il licenziamento in caso di adozione o affidamento. 2-bis. Fermo restando il rispetto della Costituzione, nonche' i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro, le specifiche intese di cui al comma 1 operano anche in deroga alle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2 ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro. 3. Le disposizioni contenute in contratti collettivi aziendali vigenti, approvati e sottoscritti prima dell'accordo interconfederale del 28 giugno 2011 tra le parti sociali, sono efficaci nei confronti di tutto il personale delle unita' produttive cui il contratto stesso si riferisce a condizione che sia stato approvato con votazione a maggioranza dei lavoratori.» In sostanza, la novita' introdotta dalla disposizione in esame riguarda la possibilita' che i contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale e/o territoriale realizzino specifiche intese, aventi ad oggetto, tra le altre cose, azioni preordinate alla maggiore occupazione, la promozione di forme di partecipazione dei lavoratori, la gestione delle crisi aziendali e occupazionali, gli investimenti e l'avvio di nuove attivita' (comma 1). Al comma 2 vengono inoltre specificati i profili inerenti l'organizzazione del lavoro e della produzione che possono essere disciplinati con dette intese. Va preliminarmente evidenziato che non e' dato sapere se detta elencazione possa considerarsi esaustiva ovvero meramente esemplificativa. E' in ogni caso rilevante sin da subito sottolineare che dette specifiche intese possono derogare alle disposizioni di legge (anche regionali) vigenti nelle materie oggetto della loro disciplina, con la conseguenza che tali intese potranno vanificare la legislazione regionale emanata in materia di tutela del lavoro. La giurisprudenza della Corte costituzionale ha chiarito che una normativa che intervenga a disciplinare la materia lavoro non possa non tenere conto dell'intreccio di materie su cui detta disciplina va ad incidere, con specifico riferimento alla competenza concorrente delle Regioni appunto in ordine alla tutela del lavoro, competenza che e' stata confermata dalla Corte con riguardo in particolare alla formazione esterna all'azienda, in materia di collocamento, con riguardo agli strumenti ed alle modalita' d'inserimento di soggetti svantaggiati nel mondo del lavoro, in riferimento alle norme che pongono limiti quantitativi alle imprese nelle assunzioni di apprendisti ed alle funzioni di programmazione, monitoraggio e verifica nell'ambito del mercato del lavoro di rispettiva competenza etc. (sentenza n. 50/2005) e, in generale, con riferimento alle politiche attive volte a favorire l'occupazione ed il lavoro. In tale contesto quindi incidono le intese derogatorie di cui all'art. 8, volte - tra le altre cose - a promuovere la maggiore occupazione e la partecipazione dei lavoratori, ad occuparsi della gestione delle crisi aziendali e occupazionali nonche' degli investimenti anche con riguardo all'introduzione di nuove tecnologie: tutte queste finalita' involgono senz'altro aspetti oggetto anche delle azioni di politica attiva del lavoro, riconducibili quindi alla potesta' concorrente delle Regioni. La su rilevata interferenza risulta ancora piu' evidente se si ha riguardo alla normativa che la Regione Toscana ha adottato in materia di lavoro, e cioe' la l.r. 32/2002 e ss. mm. ii, secondo cui tra gli obiettivi delle politiche di intervento della Regione figura: «d) sviluppare e promuovere le politiche del lavoro al fine di favorire l'incontro fra la domanda e l'offerta; e) prevenire la disoccupazione incentivando intese e accordi tra soggetti pubblici e privati per la realizzazione di iniziative locali; f) favorire azioni di pari opportunita' volte a migliorare l'accesso e la partecipazione delle donne al mercato del lavoro con interventi specifici per sostenere l'occupazione femminile, ad eliminare la disparita' nell'accesso al lavoro, favorendo i percorsi di carriera, e a conciliare la vita familiare con quella professionale; g) promuovere l'inserimento o il reinserimento nel mercato del lavoro delle persone esposte al rischio di esclusione sociale attraverso percorsi di sostegno e accesso alle misure di politica del lavoro; h) sviluppare le azioni volte a garantire ai disabili il pieno accesso agli interventi previsti dalla presente legge; i) promuovere l'innovazione, sviluppando con le parti sociali i necessari accordi, al fine di raggiungere elevati livelli di sicurezza e qualita' del lavoro, come fondamento necessario per la competizione qualitativa e l'incremento della produttivita'; i-bis) promuovere il rafforzamento delle politiche di sostegno alla continuita' lavorativa al fine di favorire condizioni lavorative stabili; i-ter) promuovere azioni di pari opportunita' e qualita' delle condizioni lavorative dei cittadini immigrati innanzitutto». Ed ancora, ai sensi dell'art. 19 della stessa l.r. 32 «Al fine di rendere effettivo il diritto al lavoro, la Regione definisce le strategie e individua le proprie politiche in linea con gli orientamenti in materia di occupazione definiti dall'Unione europea. 2. La Regione promuove il diritto e l'accesso al lavoro delle persone disabili favorendo, attraverso il collocamento mirato, l'incontro tra le esigenze dei datori di lavoro e quelle dei lavoratori disabili; ed in particolare «La Regione sviluppa e promuove politiche del lavoro per prevenire la disoccupazione, evitare la disoccupazione di lunga durata, agevolare l'inserimento lavorativo, favorendo la stabilita' del lavoro, la mobilita' professionale e le carriere individuali, sostenere il reinserimento nella vita professionale, in particolare di gruppi svantaggiati a rischio di esclusione sociale. 2. Per il conseguimento del fine di cui al comma 1, la Regione: a) sostiene azioni positive per le pari opportunita' finalizzate all'occupazione femminile e mirate al superamento degli stereotipi sulle scelte formative, sui mestieri e sulle professioni ritenuti a prevalente concentrazione femminile o maschile; b) promuove la diffusione della cultura di impresa, con particolare riferimento alla cultura cooperativa, e promuove l'imprenditoria giovanile e femminile favorendo l'avvio di nuove imprese con interventi di agevolazione e di sostegno alla loro creazione anche in forma cooperativa; c) sostiene politiche contro l'esclusione sociale, al fine di favorire l'inserimento dei disabili e delle categorie svantaggiate; d) promuove l'inserimento e il reinserimento dei disoccupati di lunga durata; d-bis) promuove la stabilizzazione dei rapporti di lavoro, anche con incentivi per l'occupazione. d-ter) interviene finanziariamente al fine di assicurare la continuita' delle erogazioni ai lavoratori posti in cassa integrazione guadagni straordinaria; 2-bis. La Regione valorizza la bilateralita' fra le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori come libera forma di collaborazione tra le parti» (art. 21 l.r. 32/2002). E' infine prevista una Commissione regionale permanente tripartita proprio per lo svolgimento di «compiti di progettazione, proposta in tema di orientamento, formazione, mediazione di manodopera e politiche del lavoro, limitatamente alle funzioni di competenza regionale, nonche' di valutazione e verifica dei risultati rispetto alle linee programmatiche e agli indirizzi elaborati dalla Regione» (art. 23, comma 2). Le intese in esame, dunque, non solo interferiscono nei suddetti ambiti, gia' oggetto di disciplina regionale, ma, addirittura, possono derogare a quest'ultima. Si viene cosi' a verificare la situazione per cui un accordo tra datore di lavoro ed organizzazione sindacale (oltretutto solo aziendale) puo' determinare il superamento della disciplina legislativa regionale. Cio' pero' non appare conforme a Costituzione: gli accordi e le intese infatti non possono limitare, vincolare ed esautorare il legislatore ne' statale ne' regionale, in quanto l'ordine costituzionale delle competenze legislative e' indisponibile e non puo' dipendere da accordi (Corte Cost. 24.4.1996 n. 126; n. 437/2001). Per tali motivi puo' ravvisarsi la violazione dell'art. 117 terzo comma Cost., sotto il profilo della violazione delle competenze regionali in materia di tutela del lavoro. Inoltre si evidenzia che molte disposizioni legislative regionali rinviano all'Osservanza dei contratti collettivi di lavoro per definire i requisiti necessari per la concessione di contributi o per la collaborazione a diverso titolo all'esercizio di funzioni regionali; ebbene la disciplina qui contestata incide del tutto illegittimamente sull'operativita' di dette disposizioni, fino a snaturarla. Cosi', ad es.: l'art 15 della l.r. 31.07.1998 n. 42, «Norme per il trasporto pubblico locale», secondo cui «la violazione dell'obbligo di applicazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro di lavoro autoferrotranvieri e ferrovieri, di cui all'art. 19, comma 3, lettera l), d.lgs. n. 422/1997, (...) costituisce causa di risoluzione del contratto»; l'art. 25 della l.r. 03.08.2004 n. 43 per il «Riordino e trasformazione delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB). Norme sulle aziende pubbliche di servizi alla persona. Disposizioni particolari per la IPAB "Istituto degli Innocenti di Firenze"», secondo il quale il rapporto di lavoro del personale delle aziende di servizi alla persona ha natura privatistica e, pertanto, e' disciplinato dalla contrattazione collettiva; l'art. 13 della l.r. 17.01.2005 n. 14, «Modifiche alla legge regionale23 marzo 2000, n. 42» (Testo unico delle leggi regionali in materia di turismo), il quale dispone che l'esercizio delle attivita' ricettive e' subordinato all'Osservanza dei contratti collettivi nazionali di lavoro e degli accordi sindacali siglati a livello territoriale; gli artt. 45 e 46 della l.r. 05.06.2007 n. 34, «Modifiche alla legge regionale 7 febbraio 2005, n. 28» (Codice del commercio. Testo unico in materia di commercio in sede fissa, su aree pubbliche, somministrazione di alimenti e bevande, vendita di stampa quotidiana e periodica e distribuzione di carburanti), secondo cui in caso di trasferimento dell'attivita' (subingresso) e/o affidamento di uno o piu' reparti di un esercizio commerciale, colui che entra nell'attivita' deve garantire il rispetto sia dei contratti «collettivi» di lavoro che di quelli «integrativi» siglati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative; l'art. 5 della l.r. 30.04.2008 n. 22, «Modifiche alla legge regionale 20 marzo 2000, n. 35» (Disciplina degli interventi regionali in materia di attivita' produttive), il quale indica tra i criteri generali da seguire per l'assegnazione degli interventi a favore delle imprese, anche l'applicazione dei contratti collettivi di lavoro; l'art. 10 della l.r. 03.06.2008 n. 33, «Modifiche alla legge regionale 27 luglio 2004, n. 38» (Norme per la disciplina della ricerca, della coltivazione e dell'utilizzazione delle acque minerali, di sorgente e termali), il quale prevede che l'inadempimento degli obblighi derivanti dai relativi contratti collettivi di lavoro applicabili comporta il mancato rilascio della concessione mineraria; l'art. 1 della l.r. 22.10.2008 n. 53, «Norme in materia di artigianato», secondo cui, nell'ambito della competenza legislativa di cui all'art. 117, comma 4 della Costituzione, tutela, sviluppo e valorizzazione dell'artigianato anche nelle sue diverse espressioni territoriali, tradizionali e artistiche, la Regione Toscana favorisce «il consolidamento e lo sviluppo delle imprese artigiane, (...), nonche' la salvaguardia e lo sviluppo qualificato dei livelli occupazionali con particolare riguardo al rispetto dei contratti collettivi nazionali di lavoro (...)»; l'art. 2 della l.r. n. 73 del 2008, «Norme in materia di sostegno alla innovazione delle attivita' professionali intellettuali», il quale definisce l'«associazione sindacale datoriale» come quella «associazione che sottoscrive i contratti collettivi nazionali di lavoro»; l'art. 3 della 1.r. 31.07.2009 n. 44, «Modifiche alla legge regionale 24 dicembre 2008, n. 69» (Legge finanziaria per l'anno 2009), il quale, per il finanziamento dei processi di innovazione e di riorganizzazione della struttura regionale e di miglioramento dei servizi, fa riferimento alle risorse individuate nel contratto collettivo nazionale; art. 57 della l.r. 14.12.2009 n. 75, «Legge di manutenzione dell'ordinamento regionale 2009», che, in materia di sviluppo economico, prevede che: «L'Azienda assume personale, compreso il direttore tecnico di cui all'art. 5-bis, con contratto di diritto privato conformemente alla disciplina portata dal contratto collettivo nazionale di lavoro per i dirigenti, gli impiegati e gli operai agricoli e dal contratto integrativo provinciale»; ed, infine, l'art. 40 della 1.r. 25.02.2010 n. 21, «Testo unico delle disposizioni in materia di beni, istituti e attivita' culturali», che individua il rispetto dei «contratti collettivi nazionali» quale criterio di ammissibilita' e di valutazione dei progetti nelle attivita' teatrali, musicali, di danza, cinematografiche ed audiovisive. Tutte queste norme regionali vengono incise e vanificate dall'art. 8 del decreto-legge n. 138 del 2001, la' dove rende «derogabili» i contratti collettivi nazionali, rovesciandone sostanzialmente il rapporto con la contrattazione territoriale e aziendale. Pertanto, alla luce di tutto quanto sopra detto l'art. 8, commi 1, 2 e 2-bis nella parte in cui impone di considerare preminente il contratto aziendale e/o territoriale sul contratto collettivo nazionale e sulla legislazione statale e regionale lede la competenza concorrente delle Regioni in materia di tutela del lavoro, cio' in contrasto con l'art. 117, comma 3, Cost. Ma la norma appare incostituzionale anche per un ulteriore profilo. Secondo l'insegnamento della Corte Costituzionale, qualora sussista un'interferenza di materie, riguardo alle quali esistono competenze legislative diverse, come e' nel caso di specie, e' necessario procedere alla loro composizione con gli strumenti della leale collaborazione (cfr., anche sul punto, sentenza n. 50/2005 in tema di crediti formativi e di qualifiche professionali). In merito si osserva ulteriormente che la Corte costituzionale (sentenza n. 176/2010) ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 2, del decreto-legge n. 112 del 2008 che ha aggiunto all'art. 49 del d.lgs. n. 276 del 2003 il seguente comma: «"5-ter. In caso di formazione esclusivamente aziendale non opera quanto previsto dal comma 5. In questa ipotesi i profili formativi dell'apprendistato professionalizzante sono rimessi integralmente ai contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente piu' rappresentative sul piano nazionale ovvero agli enti bilaterali. I contratti collettivi e gli enti bilaterali definiscono la nozione di formazione aziendale e determinano, per ciascun profilo formativo, la durata e le modalita' di erogazione della formazione, le modalita' di riconoscimento della qualifica professionale ai fini contrattuali e la registrazione nel libretto formativo". La su citata disposizione dichiarava quindi inoperante la previsione del precedente comma 5 dello stesso articolo per il quale "la regolamentazione dei profili formativi dell'apprendistato professionalizzante e' rimessa alle Regioni e alle Province autonome di Trento e Bolzano, d'intesa con le associazioni dei datori di lavoro e prestatori di lavoro comparativamente piu' rappresentative sul piano regionale"». Anche in quel caso, come nella fattispecie in esame (nel caso dell'art. 8 in esame il riferimento e' addirittura alla contrattazione aziendale e/o territoriale), la norma assegnava alla contrattazione collettiva la funzione di fonte esclusiva, anche in luogo di quella regionale, anche su aspetti di competenza regionale e/o che comunque si intrecciavano con profili attribuiti alla potesta' delle Regioni, cio' senza prevedere alcuno strumento di concertazione. La Corte costituzionale con la citata sentenza n. 176/2010, in particolare, ha sottolineato che «La formazione aziendale, come ritenuto dalla citata sentenza di questa Corte n. 50 del 2005, "rientra nel sinallagma contrattuale e quindi nelle competenze dello Stato in materia di ordinamento civile". Peraltro, nella pronuncia si afferma altresi' che "se e' vero che la formazione all'interno delle aziende inerisce al rapporto contrattuale, sicche' la sua disciplina rientra nell'ordinamento civile, e che spetta invece alle Regioni e alle Province autonome disciplinare quella pubblica, non e' men vero che nella regolamentazione dell'apprendistato ne' l'una ne' l'altra appaiono allo stato puro, ossia separate nettamente tra di loro e da altri aspetti dell'istituto", con la conseguenza che "occorre percio' tener conto di tali interferenze". Interferenze che sono correlative alla naturale proiezione esterna dell'apprendistato professionalizzante e all'acquisizione da parte dell'apprendista dei crediti formativi, utilizzabili nel sistema dell'istruzione - la cui disciplina e' di competenza concorrente - per l'eventuale conseguimento di titoli di studio. Nella specie, di tali interferenze non si e' tenuto conto e cio' determina l'illegittimita' costituzionale della norma - per contrasto con gli artt. 117 e 120 cost. nonche' con il principio di leale collaborazione [...] occorre parimenti dichiarare l'illegittimita' costituzionale della norma de qua limitatamente alla parola "integralmente", la quale rimette esclusivamente ai contratti collettivi di lavoro o agli enti bilaterali i profili formativi dell'apprendistato professionalizzante, nonche' alle parole, riferite ai contratti collettivi e agli enti bilaterali, secondo le quali essi "definiscono la nozione di formazione aziendale e". Le su indicate espressioni, infatti, escludendo l'applicazione del precedente comma 5, sono anch'esse lesive dei suddetti parametri costituzionali, perche' si traducono in una totale estromissione delle Regioni dalla disciplina de qua. Esse, anzi, appaiono particolarmente lesive in quanto la definizione della nozione di formazione aziendale costituisce il presupposto della applicazione della normativa di cui si tratta e il fatto che lo Stato abbia stabilito come tale definizione debba avvenire e, quindi, implicitamente come vada definita la formazione esterna (di competenza regionale), denota che esso si e' attribuito una "competenza sulle competenze" estranea al nostro ordinamento. Infatti, cosi' come le Regioni non possono, nell'esercizio delle proprie competenze, svuotare sostanzialmente di contenuto la competenza statale - come e' stato sottolineato, in materia di apprendistato, fra l'altro, nella sentenza n. 418 del 2006 - analogamente non e' ammissibile riconoscere allo Stato la potesta' di comprimere senza alcun limite il potere legislativo regionale. Nella specie lo Stato si e' unilateralmente attribuito il potere di disciplinare le fonti normative per identificare il discrimine tra formazione aziendale (la cui disciplina gli spetta) e formazione professionale extra aziendale (di competenza delle Regioni), escludendo cosi' qualsiasi partecipazione di queste ultime. In sintesi, anche nell'ipotesi di apprendistato, con formazione rappresentata come esclusivamente aziendale, deve essere riconosciuto alle Regioni un ruolo rilevante, di stimolo e di controllo dell'attivita' formativa [...]». Anche nella fattispecie in parola, come nel citato precedente, si registrala totale assenza di strumenti di concertazione, rimanendo le Regioni del tutto estranee alle intese di cui si tratta; cio' e' ancor piu' grave, in quanto si prevede che dette intese deroghino alle disposizioni di legge, senza esclusione per quelle regionali. Percio' puo' ravvisarsi l'ulteriore lesione dell'art. 117 terzo comma Cost., nonche' dell'art. 118 anche per violazione del principio della leale collaborazione, stante la mancata previsione di un adeguato coinvolgimento regionale, pur a fronte di una normativa che presenta molteplici interferenze con le competenze regionali. La disposizione in esame e' poi incostituzionale sotto ulteriore profilo. Essa contrasta con l'art. 39 della Costituzione, secondo cui il contratto collettivo di lavoro ha efficacia generale solo se il sindacato e' registrato e, quindi, data la non attuazione dell'art. 39 Cost., il contratto collettivo e le specifiche intese di cui si tratta non possono avere efficacia generale ne' tanto meno derogatoria rispetto a norme di legge, anche regionali. Nel caso di specie la disposizione impugnata si traduce in una delega di funzioni paralegislative (per usare un'espressione della sentenza n. 344 del 1996) addirittura ai contratti collettivi di lavoro e/o alle specifiche intese sottoscritte a livello aziendale o territoriale, cio' determinando una palese violazione dell'art. 39 cost. in quanto detti contratti e/o intese sono trasformati in una fonte extra-ordinem, ed operano in deroga ai contratti collettivi nazionali e alle disposizioni di legge statale e regionale. Attraverso questa violazione si produce - come visto - una menomazione delle competenze regionali in materia di tutela del lavoro, di competenza regionale concorrente; sussistono pertanto tutti gli elementi della lesione di competenza indiretta, nel senso che la violazione dell'art. 117, terzo comma, cost. si determina anche attraverso la violazione dell'art. 39 cost. (cfr. le sentenze n. 206 del 2001, punti 15, 16 e 34, n. 110 del 2001, n. 303 del 2003, punto 35, n. 280 del 2004, n. 355 del 1993). Di qui la legittimazione regionale a far valere anche la violazione dell'art. 39 e, tramite questa, della propria potesta' legislativa in materia di tutela del lavoro (in tal senso si richiama la sentenza n. 219 del 1984). 4) Illegittimita' costituzionale dell'art. 11 nella parte in cui detta la disciplina relativa ai tirocini formativi e di orientamento non curriculari, per violazione degli artt. 117, comma 4, e 118 Cost. L'art. 11 in esame riguarda i tirocini formativi e di orientamento non curriculari; il legislatore statale, nel dichiarato intento di fissare i livelli minimi essenziali, stabilisce che i medesimi possono essere promossi solo a favore di neo diplomati o neo laureati non oltre 12 mesi dal conseguimento del titolo di studio e non possono avere durata superiore a sei mesi (proroghe comprese). Inoltre, il successivo comma 2, prevede che «in assenza di specifiche regolamentazioni regionali trovano applicazione, per quanto compatibili con le disposizioni di cui al comma che precede, l'art. 18 della legge 24 giugno 1997, n. 196 e il relativo regolamento di attuazione». La norma, nel dettare regole relative ai tirocini formativi, incide evidentemente sulle competenze regionali in materia di formazione professionale, ossia una materia affidata alla competenza residuale delle Regioni con violazione dell'art. 117, quarto comma, e dell'art. 118 Cost., nella parte in cui la disciplina si riferisce anche a quei tirocini che non abbiano alcun collegamento con i rapporti di lavoro e/o non siano preordinati in via immediata ad eventuali assunzioni. Come chiarito dalla Corte costituzionale nella pronuncia n. 50/2005, infatti, «La competenza esclusiva delle Regioni in materia di istruzione e formazione professionale riguarda la istruzione e la formazione professionale pubbliche che possono essere impartite sia negli istituti scolastici a cio' destinati, sia mediante strutture proprie che le singole Regioni possano approntare in relazione alle peculiarita' delle realta' locali, sia in organismi privati con i quali vengano stipulati accordi. La disciplina della istruzione e della formazione professionale che i privati datori di lavoro somministrano in ambito aziendale ai loro dipendenti [...]» ossia «La formazione aziendale rientra invece nel sinallagma contrattuale e quindi nelle competenze dello Stato in materia di ordinamento civile [...]» Cio' posto, la Corte costituzionale ha ritenuto fondata «la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 60 del d.lgs. n. 276, proposta dalle Regioni Emilia-Romagna, Marche e Toscana in riferimento all'art. 117, terzo e quarto comma, della Costituzione. Infatti, la disciplina dei tirocini estivi di orientamento, dettata senza alcun collegamento con rapporti di lavoro, e non preordinata in via immediata ad eventuali assunzioni, attiene alla formazione professionale di competenza esclusiva delle Regioni" (la distinzione tra formazione interna e formazione esterna all'azienda, nonche' il riconoscimento della competenza esclusiva regionale con riguardo a quest'ultima e' stata ribadita dalla Corte costituzionale anche con la successiva sentenza n. 176/2010). Ed ancora, con la sentenza n. 269/2010, la Corte costituzionale ha affermato la legittimita' costituzionale del comma 43 dell'art. 6 legge della Regione Toscana 9 giugno 2009, n. 29, proprio in considerazione del fatto che «l'obiettivo della norma e' chiaramente quello di consentire alla Regione di promuovere intese (al fine di agevolare la frequenza degli stranieri ai corsi di formazione professionale o tirocini formativi), che si riferiscono ad un ambito di competenza legislativa regionale residuale, corrispondente appunto alla formazione professionale». Si osserva a tal proposito che il Ministero del Lavoro e' di recente intervenuto in merito con la circolare n. 24/2011 sottolineando che l'ambito di applicazione della norma in esame deve considerarsi limitato ai soli tirocini formativi e di orientamento cioe' quegli attualmente disciplinati a livello nazionale dalla legge 196/1997, che sono finalizzati ad agevolare le scelte professionali e la occupabilita' dei giovani nella fase di transizione dalla scuola al lavoro mediante la formazione in ambiente produttivo, restando esclusi i tirocini di inserimento/reinserimento al lavoro ed i tirocini curricolari a prescindere che gli stessi siano o meno direttamente finalizzati al riconoscimento dei crediti formativi. Pur a fronte dei chiarimenti forniti dal Ministero, la norma appare comunque lesiva delle prerogative regionali costituzionalmente garantite in tema di formazione professionale perche' i tirocini formativi rientrano nella formazione esterna all'azienda, di competenza esclusiva regionale come affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 50/2005; inoltre non viene neppure prevista alcuna forma di collaborazione con la Regione. La disposizione in esame non puo' neppure ritenersi giustificata con il richiamo alla competenza statale in materia di determinazione dei livelli minimi essenziali di cui all'art. 117 secondo comma lett. m), perche' questa puo' essere invocata esclusivamente quando si fissano livelli delle prestazioni. Nel caso in esame, invece, la disposizione non fissa affatto gli standards minimi, ed e' sostanzialmente diverso determinare i livelli essenziali, nel rispetto dei quali le Regioni ben potranno determinare standards qualitatitivi dei servizi superiori rispetto ai minimi, dalla minuziosa regolamentazione dell'esercizio della concreta potesta' amministrativa. Si ribadisce pertanto la violazione degli artt. 117, comma 4, e 118 cost. nonche' del principio di leale collaborazione. 5) Illegittimita' costituzionale dell'art. 16, commi 1, 3, 4, 5, 7, 8 e da 10 a 15, nonche' commi 16, 17 lett. a) e commi da 19 a 21, nella parte in cui prevede e disciplina le Unioni di Comuni, per violazione degli artt. 3, 97, 114, 117, commi 2 lett. p), 3 e 4, 118 e 133, comma 2, Cost. nonche' per violazione del principio di leale collaborazione. L'art. 16, nella versione di cui alla legge di conversione, prevede una disciplina puntuale in materia di Unioni di Comuni, ben al di la' delle competenze statali di cui all'art. 117, comma 2, lett. p): a) Si rileva innanzitutto la violazione dell'art. 133, comma 2, anche in relazione agli artt. 114 e 117, comma 4, Cost.: la normativa in esame prevede infatti per i Comuni fino a 1000 abitanti l'esercizio necessario attraverso la forma associativa dell'Unione di tutte le funzioni, non solo quelle fondamentali, anche quelle delegate e/o attribuite dalle Regioni (comma 1); dal combinato disposto dei commi 4 e 5 emerge che i margini di autonomia (riconosciuta costituzionalmente ai sensi dell'art. 114 Cost.) che residuano ai Comuni sono marginali se non addirittura simbolici; i predetti commi infatti prevedono che le funzioni di programmazione economico-finanziaria e la gestione contabile sia di competenza delle Unioni, inoltre e' sancita la successione dell'Unione in tutti i rapporti giuridici in essere in capo ai Comuni, nonche' il trasferimento alle stesse di tutte le risorse umane e strumentali relative alle funzioni ed ai servizi loro affidati ai sensi dei commi 1, 2 e 4, nonche' i relativi rapporti finanziari risultanti dal bilancio; infine a decorrere dall'anno 2014, le Unioni di comuni sono soggette alla disciplina del patto di stabilita' interno per gli enti locali prevista per i comuni aventi corrispondente popolazione. Ed ancora i commi da 10 a 15 della stessa norma individuano puntualmente gli organi ed il funzionamento di dette Unioni alla stregua di vere e proprie fusioni di Comuni (basti pensare che il comma 14 assegna a dette Unioni anche l'autonomia statutaria). Infine al comma 8 si stabilisce che «Nel termine perentorio di sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, i comuni di cui al comma 1 (rectius quei Comuni con popolazione fino a 1000 abitanti), con deliberazione del consiglio comunale, da adottare, a maggioranza dei componenti, conformemente alle disposizioni di cui al comma 6, avanzano alla regione una proposta di aggregazione, di identico contenuto, per l'istituzione della rispettiva unione. Nel termine perentorio del 31 dicembre 2012, la regione provvede, secondo il proprio ordinamento, a sancire l'istituzione di tutte le unioni del proprio territorio come determinate nelle proposte di cui al primo periodo e sulla base dell'elenco di cui al comma 16. La regione provvede anche qualora la proposta di aggregazione manchi o non sia conforme alle disposizioni di cui al presente articolo». Alla luce della disciplina su richiamata e' evidente che la norma, di fatto, prevede la fusione dei piccoli Comuni, con la conseguente modifica delle circoscrizioni comunali, cio' in violazione della procedura prevista dall'art. 133, comma 2, Cost., secondo il quale «La Regione, sentite le popolazioni interessate, puo' con sue leggi istituire nel proprio territorio nuovi Comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni». A tale ultimo proposito si Osserva che la Corte costituzionale con la recente sentenza n. 261/2011, nel confutare le argomentazioni del Giudice rimettente in ordine alla affermata competenza statale relativa alle circoscrizioni comunali, ha ribadito che - fatta eccezione per l'ambito di competenza esclusiva statale delineato all'art. 117, comma 2, lett. p) cost. che delimita specificatamente sia gli enti che i profili ordinamentali degli stessi rimessi alla legislazione nazionale - l'ordinamento degli enti locali e' materia di competenza regionale esclusiva, competenza esclusiva che, con riguardo al mutamento delle circoscrizioni comunali trova specifico fondamento nell'art. 133, comma 2, Cost. Per contro, si ribadisce, appare evidente che l'Unione di cui si tratta, proprio in quanto si configura come ente, con propri organi e che subentra ai comuni minori non solo nella gestione di tutte le loro funzioni e servizi ma anche in tutti i rapporti giuridici, e acquisisce le risorse umane e strumentali connesse alle funzioni e ai servizi trasferiti, si presenta in realta' come un ente la cui istituzione determina il venir meno per i comuni che ne sono membri di alcuni elementi essenziali propri di un ente, e in particolare di un ente territoriale. Inoltre le Unioni sono dotate di propri organi, del tutto distinti da quelli dei comuni e si prevede persino che in futuro gli organi dell'unione possano essere eletti a suffragio universale e diretto, assumendo cosi' una legittimazione democratica che e' propria degli enti territoriali, espressione di proprie comunita'. Pertanto, la istituzione di Unioni obbligatorie cosi' fatte e cosi' organizzate, e la contestuale riduzione dei consigli comunali a puri organi di partecipazione hanno l'effetto di determinare di fatto la soppressione dei Comuni che partecipano a questa forma associativa e la loro sostituzione con l'unione stessa, nuovo tipo di ente territoriale. Di fatto, ma anche di diritto, l'Unione cosi' come disciplinata dalla norma in esame implica, innanzitutto, una inaccettabile differenziazione fra Comuni che ne fanno parte e tutti gli altri, cio' in violazione dell'art. 114 cost. il quale prevede solo le cinque forme di enti territoriali obbligatorie, configurandole come elementi tutti costitutivi, a pari titolo, della Repubblica. In ogni caso, non e' in alcun modo ammissibile che il legislatore statale, senza alcuna competenza legislativa a tal fine prevista in Costituzione, possa creare un nuovo ente territoriale che subentra ai Comuni in ogni loro rapporto; si ribadisce a tal proposito che la potesta' legislativa in materia di ordinamento degli enti locali spetta in via esclusiva alle Regioni. A questo punto si sottolinea nuovamente che, come non e' nella competenza del legislatore statale creare nuovi livelli di governo a natura obbligatoria e «sostitutivi» di quelli previsti dall'art. 114 Cost., egualmente non e' nelle competenze del legislatore statale modificare la circoscrizione dei Comuni o istituirne di nuovi. A tal fine - si ripete - la Costituzione contiene un apposito articolo, il 133, che definisce un procedimento specifico, prevedendo anche l'obbligo di sottoporre a referendum delle popolazioni interessate le scelte, che poi sono rimesse alla legge regionale. Dunque, da questo punto di vista, la disciplina relativa alle Unioni di Comuni di cui si tratta (commi da 1 a 15 dell'art. 16 in parola) appare in netto contrasto il quadro costituzionale ed in particolare con gli artt. 114, 117, comma 4 e 133 Cost. b) Ed ancora, l'art. 16 comma 1, nella parte in cui pretende di allocare tutte le funzioni amministrative, anche quelle in materie residuali o concorrenti regionali, in capo alle Unioni di Comuni, si pone in contrasto con gli artt. 117, commi 2 lett. p), 3 e 4, e 118 Cost. La norma in esame infatti si riferisce a tutte le funzioni amministrative esercitate dagli enti locali in questione, in qualunque materia esse si collochino; dunque, e' incostituzionale nella parte in cui ha ad oggetto anche le funzioni amministrative che ricadono nelle materie di cui ai commi terzo e quarto dell'art. 117 Cost.; del pari e' incostituzionale la previsione in esame nella parte in cui pretende di allocare tutte le funzioni amministrative che riguardano i «servizi pubblici» svolti dagli enti locali, i quali per pacifica giurisprudenza costituzionale rientrano nell'ambito affidato alla competenza legislativa residuale regionale (si veda per tutte per questo ultimo profilo la sentenza della Corte costituzionale n. 272/2004). In particolare, preme ribadire che la legge statale e' competente in via esclusiva per quanto riguarda le sole funzioni fondamentali; deve invece escludersi che possa imporre forme associate di esercizio anche delle funzioni proprie dei comuni (che cioe' rientrano nell'autonomia organizzativa degli stessi) e comunque di quelle ad essi assegnate da leggi regionali. Con riguardo a quest'ultime spetta al legislatore regionale, sulla base di quanto previsto dall'art. 118 cost. in termini di differenziazione e adeguatezza, prevedere forme di associazione come condizione per l'attribuzione delle funzioni stesse. In ogni caso non ha fondamento costituzionale che la legge statale possa imporre forme di gestione associata di tutte le funzioni e di tutti i servizi dei comuni. c) Ma l'art. 16 (commi 1, 3, 4, 5, 7, 8 e da 10 a 15) appare lesivo anche sotto l'ulteriore profilo della violazione dell'art. 114 e 117, comma 4 Cost., in quanto interviene con una normativa puntuale in materia di disciplina delle forme associative degli enti locali, materia che secondo il pacifico orientamento della Corte costituzionale rientra nella competenza esclusiva delle Regioni. In particolare la Corte ha affermato che l'art. 117, comma 2, lett. p) Cost. deve essere interpretato in maniera restrittiva e non puo' essere invocato in ordine alla scelta in merito alla costituzione e/o alla soppressione di forme associative tra enti locali. In tal senso la giurisprudenza costituzionale ha chiarito che la disciplina delle forme associative tra enti locali rientra nella potesta' legislativa residuale delle Regioni ai sensi dell'art. 117, comma 4, cost. (cfr. le sentenze n. 27/2010; 237/2009; sent. n. 244/2005; 456/2005). Specificatamente, con la pronuncia n. 244/2055 la Corte costituzionale, dopo aver affermato che le Comunita' Montane altro non sono che «"un caso speciale di unioni di Comuni, "create in vista della valorizzazione delle zone montane, allo scopo di esercitare, in modo piu' adeguato di quanto non consentirebbe la frammentazione dei comuni montani, "funzioni proprie", "funzioni conferite" e funzioni comunali"», ha ribadito che 1'«art. 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, nella parte in cui prevede, tra l'altro, che rientra nella competenza esclusiva dello Stato la materia relativa alla "legislazione elettorale" e agli "organi di governo". Cio' in quanto la citata disposizione fa espresso riferimento ai Comuni, alle Province e alle Citta' metropolitane e l'indicazione deve ritenersi tassativa. Da qui la conseguenza che la disciplina delle Comunita' montane, pur in presenza della loro qualificazione come enti locali contenuta nel d.lgs. n. 267 del 2000, rientra nella competenza legislativa residuale delle Regioni ai sensi dell'art. 117, quarto comma, della Costituzione». Il suddetto principio peraltro era gia' stato affermato anche nella giurisprudenza precedente, perche' gia' con la pronuncia n. 343/1991, la Regione e' stata individuata come «il centro propulsore e di coordinamento dell'intero sistema delle autonomie locali», necessario a fronte di un tessuto organizzativo degli enti locali cosi' diversificato da richiedere un incisivo ruolo di coordinamento delle Regioni, nelle materie di loro spettanza, anche per quanto attiene all'organizzazione delle funzioni e all'individuazione, quindi, del livello ottimale di esercizio. La norma in esame, per contro, contiene una puntuale disciplina della forma associativa ivi prevista, illegittima, perche' non lascia alcuno spazio al legislatore regionale, cosi' come evidenziato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 237 del 2009 in relazione ad analoga norma. Nella citata pronuncia e' infatti affermato: «Quest'ultimo, pero', contiene una disciplina di dettaglio ed auto-applicativa che non puo' essere ricondotta all'alveo dei principi fondamentali della materia del coordinamento della finanza pubblica, in quanto non lascia alle Regioni alcuno spazio di autonoma scelta e dispone, in via principale, direttamente la conseguenza, anche molto incisiva, della soppressione delle comunita' che si trovino nelle specifiche e puntuali condizioni ivi previste». Tale principio vale anche per la norma impugnata che contiene, come rilevato, un'analitica e dettagliata disciplina degli effetti della costituzione delle Unioni di comuni. Alla luce delle pronunce della Corte costituzionale citate appaiono senz'altro lesive delle prerogative regionali costituzionalmente garantite le disposizioni di cui ai commi 1, 3, 4,5, 7 e 8 ed i commi da 10 a 15, innanzitutto in relazione alla competenza esclusiva delle Regioni in materia di ordinamento degli enti locali ed in particolare in relazione alle forme associative tra enti per violazione degli artt. 117, comma 4 e 118 Cost. In particolare i commi 1, 3, 4, 7 e 8, in quanto prevedono una disciplina specifica ed auto-applicativa delle Unioni di Comuni (in merito alle modalita' di costituzione e funzionamento delle stesse), derogatoria della normativa vigente statale e non, che appare senz'altro invasiva della competenza legislativa regionale in ordine alle forme associative degli enti locali ex art. 117, comma 4, Cost. Stesse considerazioni valgono in ordine al comma 5 che dispone la successione ex lege dei rapporti gia' in capo ai Comuni relativi alle funzioni ed ai servizi affidati alle Unioni (quindi per i comuni sotto i 1000 abitanti, tutte le funzioni). Del pari in contrasto con gli artt. 117, comma 4 e 118 Cost., per lesione dell'ambito di competenza regionale in ordine alle forme associative di cui si tratta, sono i commi da 10 a 15 che disciplinano nel dettaglio gli organi e la potesta' statutaria delle Unioni di Comuni. Sotto altro profilo si osserva che, come evidenziato dalla risoluzione del Consiglio delle Autonomie Locali depositata, la disciplina contestata, nel prevedere una forma associativa titolare della gestione di ogni funzione e servizio assegnato ai Comuni membri e della quale questi Comuni sono tenuti obbligatoriamente a far parte, impone a questa particolare categoria di comuni (rectius quelli fino a 1000 abitanti) vincoli e limiti che li differenziano completamente dagli altri Comuni ai quali questi vincoli non si applicano. Detta differenziazione appare in netto contrasto tanto con l'art. 114 (il quale assegna pari dignita' costituzionale a Comuni, Province e Citta' metropolitane ponendole sullo stesso piano di Regioni e Stato, dando cosi' successivo svolgimento ai principi contenuti nell'art. 5 della Costituzione secondo «una visione massimamente pluralistica dell'ordinamento, riconoscendone una propria autonomia che si estrinseca nella potesta' statutaria, nell'esercizio di poteri e funzioni autonome secondo i principi fissati dalla Costituzione») quanto anche con l'art. 118 cost. che fissa i principi costituzionale a cui la legge deve attenersi nell'attribuzione delle funzioni amministrative. La disciplina impugnata crea, infatti, due diverse classi di Comuni con caratteristiche istituzionali diverse, articolando in tal modo in maniera rigida, netta e definitiva un livello di governo, quello comunale appunto, che l'art. 114 cost. vuole invece ispirato al principio di eguaglianza e di pari dignita' istituzionale, principi validi a maggior ragione con riferimento allo stesso livello di governo. In altri termini, il quadro costituzionale non tollera una forma di differenziazione generale e onnipervasiva dei Comuni, tale da irrigidire in due categorie distinte l'unitaria categoria del comune come livello territoriale di governo. E cio' tanto piu' se si considera il ruolo generale riconosciuto al Comune, dal combinato disposto degli artt. 114 e 118, quale soggetto titolare in prima istanza di ogni funzione amministrativa, proprio quel potere amministrativo che in definitiva viene sottratto dalla norma censurata ad una categoria specifica di comuni. Si evidenzia, poi, un ulteriore profilo di incostituzionalita' della norma in quanto la predetta disciplina e' imposta unilateralmente dallo Stato, cio' in violazione altresi' del principio di leale collaborazione di cui all'art. 118 Cost. Infine, la norma in esame appare anche in contrasto con gli artt. 117, comma 3, e 119 Cost., non potendo il legislatore - nel caso di specie - utilmente invocare la propria competenza a determinare (solo) i principi fondamentali in materia di finanza pubblica (come invece sembra ipotizzarsi dall'esplicito richiamo contenuto al comma 1), materia di competenza concorrente regionale, posto che, si ripete, la normativa in esame ha carattere dettagliato e puntuale (si vedano in tal senso le sentenze n. 88 del 2006, n. 449 e n. 417 del 2005, n. 36 del 2004; n. 169 del 2007). d) Il comma 16 dell'art. 16 in esame, per la parte in cui prevede l'alternativita' delle forme associative possibili, unione e convenzione, rimessa ai comuni e all'apprezzamento del Ministero dell'Interno appare contrastare con il principio di ragionevolezza e di buon andamento, cosi' come rilevato nella risoluzione del Consiglio delle Autonomie Locali depositata. Essa, infatti, configura come forme alternative per la medesima gestione onnicomprensiva delle funzioni e dei servizi: una forma associativa configurata come ente, dotato di propri organi, di un proprio bilancio, di una propria dimensione territoriale e di ogni altro elemento costitutivo di una persona giuridica; e una forma associativa estremamente flessibile, variabile nel tempo, facilmente modificabile scaduti i termini previsti dalla legge per la sua adozione, che comunque non si configura ne' puo' configurarsi come ente. La discrepanza fra i due modelli e' tale da far ritenere che la norma chela prevede e ne dispone la alterita' risulta viziata da illogicita', irragionevolezza e lesione del principio di buon andamento. Non sembra potersi sostenere che due forme associative cosi' diverse possano svolgere con efficacia ed effetti analoghi il medesimo compito di assicurare la gestione di tutte le funzioni e di tutti i servizi dei comuni che ne fanno parte, secondo le modalita' e i vincoli previsti dall'articolo in questione. Cio' evidentemente incide anche sulle funzioni di competenza regionale ai sensi dell'art. 117, commi 3 e 4, Cost. Si rileva pertanto per questo profilo la violazione dei principi di ragionevolezza e di buon andamento ai sensi degli artt. 3 e 97 cost. anche in relazione all'art. 117, commi 3 e 4 Cost. e) Infine si rileva l'incostituzionalita': del comma 17 lett. a) dell'art. 16, che ridefinisce il numero degli organi e dei loro componenti rispetto ai comuni fino a diecimila abitanti, articolandone numero e composizione sulla base delle soglie demografiche, stabilendo che quelli fino a mille abitanti hanno solo consiglio e sindaco; dei commi 19, 20, 21 i quali pongono vincoli di orari e di modalita' di svolgimento delle sedute degli organi collegiali dei comuni fino a quindicimila abitanti; In particolare, l'art. 16, comma 17 lett. a), nella parte in cui non prevede piu' la giunta municipale per i comuni fino a mille abitanti, anche ove detti Comuni esercitino le loro funzioni in convenzione, appare in contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 cost. e con il principio di buon andamento ai sensi dell'art. 97, anche in relazione alle competenze regionali ex art. 117, commi 3 e 4, Cost., in quanto incide sulla funzionalita' di dette forme associative e quindi sullo svolgimento delle funzioni amministrative che la Regione ha attribuito ai comuni. E' evidente, infatti, che la Convenzione ex art. 30 TUEL e' una forma flessibile di gestione associata, che non ha un organo esecutivo per cui e' illogico eliminare gli esecutivi dei singoli comuni. Infine, con riferimento ai commi 19, 20, 21, che pongono vincoli in ordine alle modalita' temporali e alle sedute degli organi collegiali di governo degli enti territoriali, si osserva che essi ledono la autonomia organizzativa dei comuni, cio' in contrasto con l'art. 117, sesto comma, ultima parte, cost. che recita «i comuni, le province, le citta' metropolitane hanno potesta' regolamentare in ordine alla disciplina della loro organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite»; in ogni caso la disciplina di cui ai commi 19, 20 e 21 in esame incide in materia di ordinamento degli enti locali di competenza esclusiva regionale ai sensi dell'art. 117, comma 4, Cost. 6) Illegittimita' costituzionale dell'art. 16, comma 16, nella parte in cui prevede un controllo statale sulla efficacia ed efficienza della gestione delle forme associative diverse dalle Unioni di Comuni, per violazione degli artt. 114 e 117, commi 3 e 4, 118 e 119 Cost., nonche' del principio di leale collaborazione. Il comma 16 dell'art. 16 viola ulteriormente gli artt. 114 e 117, comma 4, cost. in quanto «reintroduce» un controllo statale sulla efficacia ed efficienza della gestione delle forme associative diverse dalle Unioni. In particolare, la norma dopo aver previsto l'esenzione dall'obbligo di associarsi in Unione di cui al comma 1 per quei comuni che, alla data del 30 settembre 2012, risultino esercitare le funzioni amministrative e i servizi pubblici di cui al medesimo comma 1 (quindi anche in ambiti di competenza legislativa regionale) mediante convenzione ai sensi dell'art. 30 del decreto legislativo n. 267 del 2000, stabilisce che «Ai fini di cui al primo periodo, tali comuni trasmettono al Ministero dell'interno, entro il 15 ottobre 2012, un'attestazione comprovante il conseguimento di significativi livelli di efficacia ed efficienza nella gestione, mediante convenzione, delle rispettive attribuzioni. Con decreto del Ministro dell'interno, da adottare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono determinati contenuti e modalita' delle attestazioni di cui al secondo periodo. Il Ministero dell'interno, previa valutazione delle attestazioni ricevute, adotta con proprio decreto, da pubblicare entro il 30 novembre 2012 nel proprio sito internet, l'elenco dei comuni obbligati e di quelli esentati dall'obbligo di cui al comma 1». Il controllo ministeriale ivi previsto evidentemente contrasta innanzitutto con lo spirito della modifica del Titolo V della Costituzione, con il quale sono state soppresse le funzioni statali di controllo sugli Enti locali in ragione della rafforzata autonomia prevista oggi dall'art. 114 cost. ed in ogni caso la norma prevede, in via unilaterale e senza delineare alcun ruolo delle Regioni, un inammissibile controllo sulle forme associative di enti locali, la cui disciplina - come visto - e' riservata alla competenza esclusiva delle regioni; cio' in violazione dell'art. 117, comma 4, cost. e dell'art. 118 cost. nonche' del principio di leale collaborazione. A seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, la materia dei controlli e' estranea alla sfera di competenza statale essendo riservata alla potesta' legislativa regionale e/o a quella regolamentare degli enti locali; conformemente a detta tesi la Corte costituzionale ha affermato la legittimita' costituzionale delle (sole) norme che disciplinano «gli obblighi di trasmissione di dati (rectius alla Corte dei Conti) finalizzati a consentire il funzionamento del sistema dei controlli sulla finanza di regioni ed enti locali, riconducendole ai principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, con funzione regolatrice della cosiddetta "finanza pubblica allargata", allo scopo di assicurare il rispetto del patto di stabilita'» (sentenza n. 417/2005). Non puo' superare il vaglio di costituzionalita', invece, una norma - come e' quella in esame - che prevede una puntuale valutazione da parte del Ministero degli Interni della gestione svolta dagli enti locali tramite le convenzioni ex art. 30 d.lgs. 267/2000. L'intervento statale de quo non si giustifica neppure alla luce della nella competenza statale a definire dei principi fondamentali in tema di coordinamento della finanza pubblica. La disciplina e' infatti una disciplina di dettaglio e sotto questo profilo si profila l'ulteriore violazione dell'art. 117, comma 3 e 119 Cost. (cfr. in tal senso la gia' citata sentenza della Corte costituzionale n. 237 del 2009). 7) Illegittimita' costituzionale dell'art. 16, comma 28, nella parte in cui autorizza l'esercizio di un potere sostitutivo straordinario da parte del Prefetto, cio' in contrasto con l'art. 117, commi 3 e 4, e con l'art. 120, comma 2, Cost. Infine appare lesivo anche il comma 28 dell'art. 16 in parola, il quale dispone che «Al fine di verificare il perseguimento degli obiettivi di semplificazione e di riduzione delle spese da parte degli enti locali, il prefetto accerta che gli enti territoriali interessati abbiano attuato, entro i termini stabiliti, quanto previsto dall'articolo 2, comma 186, lettera e), della legge 23 dicembre 2009, n. 191, e successive modificazioni, e dall'articolo 14, comma 32, primo periodo, del citato decreto-legge n. 78 del 2010, come da ultimo modificato dal comma 27 del presente articolo. Nel caso in cui, all'esito dell'accertamento, il prefetto rilevi la mancata attuazione di quanto previsto dalle disposizioni di cui al primo periodo, assegna agli enti inadempienti un termine perentorio entro il quale provvedere. Decorso inutilmente detto termine, fermo restando quanto previsto dal secondo periodo, trova applicazione l'articolo 8, commi 1, 2, 3 e 5 della legge 5 giugno 2003, n. 131.»: la norma prevede un potere sostitutivo dello Stato, allocato in capo ai prefetti, al di fuori dello schema di cui all'art. 120, comma 2, cost. e comunque ben al di la' dei limiti stabiliti dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 43/2004. Con la su richiamata sentenza, la Corte costituzionale ha chiarito innanzitutto che il potere sostitutivo previsto ai sensi dell'art. 120, secondo comma, Cost., dovendosi rispettare la posizione di autonomia costituzionalmente garantita dell'ente sostituendo, ha carattere eccezionale e quindi puo' svolgersi esclusivamente nelle ipotesi tassativamente indicate nello stesso articolo. Osserva la Corte «Il nuovo articolo 120, secondo comma, della Costituzione si inserisce in questo contesto, con la previsione esplicita del potere del Governo di "sostituirsi a organi delle Regioni, delle Citta' metropolitane, delle Province e dei Comuni" in determinate ipotesi, sulla base di presupposti che vengono definiti nella stessa norma costituzionale. L'ultimo periodo del comma prevede che sia la legge a definire le procedure, relative evidentemente all'esercizio dei poteri sostitutivi previsti dal periodo precedente. La nuova norma deriva palesemente dalla preoccupazione di assicurare comunque, in un sistema di piu' largo decentramento di funzioni quale quello delineato dalla riforma, la possibilita' di tutelare, anche al di la' degli specifici ambiti delle materie coinvolte e del riparto costituzionale delle attribuzioni amministrative, taluni interessi essenziali - il rispetto degli obblighi internazionali e comunitari, la salvaguardia dell'incolumita' e della sicurezza pubblica, la tutela in tutto il territorio nazionale dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali - che il sistema costituzionale attribuisce alla responsabilita' dello Stato (cfr. infatti l'articolo 117, quinto comma, ultimo inciso, della Costituzione, per gli obblighi internazionali e comunitari; l'articolo 117, secondo comma, lettere h) e m), rispettivamente per l'ordine e la sicurezza pubblica e per i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali). Quanto all'unita' giuridica" e all'"unita' economica", quale che ne sia il significato (che qui non occorre indagare), si tratta all'evidenza del richiamo ad interessi "naturalmente" facenti capo allo Stato, come ultimo responsabile del mantenimento della unita' e indivisibilita' della Repubblica garantita dall'articolo 5 della Costituzione.[...] l'articolo 120, secondo comma, prevede solo un potere sostitutivo straordinario, in capo al Governo, da esercitarsi sulla base dei presupposti e per la tutela degli interessi ivi esplicitamente indicati [...] Il carattere straordinario e "aggiuntivo" degli interventi governativi previsti dall'articolo 120, secondo comma, risulta sia dal fatto che esso allude a emergenze istituzionali di particolare gravita', che comportano rischi di compromissione relativi ad interessi essenziali della Repubblica». E se e' pur vero che la Corte con la stessa sentenza ha sottolineato che la norma di cui all'art. 120, secondo comma, cost. «lascia impregiudicata ammissibilita' e la disciplina di altri casi di interventi sostitutivi, configurabili dalla legislazione di settore, statale o regionale, in capo ad organi dello Stato o delle Regioni o di altri enti territoriali, in correlazione con il riparto delle funzioni amministrative da essa realizzato e con le ipotesi specifiche che li possano rendere necessari», la stessa Corte ha chiarito che «Poiche' pero', come si e' detto, tali interventi sostitutivi costituiscono una eccezione rispetto al normale svolgimento di attribuzioni dei Comuni de mite dalla le e sulla base di criteri o assistiti da garanzia costituzionale, debbono valere nei confronti di essi condizioni e limiti non diversi (essendo fondati sulla medesima ragione costituzionale) da quelli elaborati nella ricordata giurisprudenza di questa Corte in relazione ai poteri sostitutivi dello Stato nei confronti delle Regioni. In primo luogo, le ipotesi di esercizio di poteri sostitutivi debbono essere previste e disciplinate dalla legge (cfr. sentenza n. 338 del 1989), che deve definirne i presupposti sostanziali e procedurali. In secondo luogo, la sostituzione puo' prevedersi esclusivamente per il compimento di atti o di attivita' "prive di discrezionalita' nell'an (anche se non necessariamente nel quid o nel quomodo)" (sentenza n. 177 del 1988), la cui obbligatorieta' sia il riflesso degli interessi unitari alla cui salvaguardia provvede l'intervento sostitutivo: e cio' affinche' essa non contraddica l'attribuzione della funzione amministrativa all'ente locale sostituito. Il potere sostitutivo deve essere poi esercitato da un organo di governo della Regione o sulla base di una decisione di questo (cfr. sentenze n. 460 del 1989, n. 342 del 1994, n. 313 del 2003): cio' che e' necessario stante l'attitudine dell'intervento ad incidere sull'autonomia, costituzionalmente rilevante, dell'ente sostituito. La legge deve, infine, apprestare congrue garanzie procedimentali per l'esercizio del potere sostitutivo, in conformita' al principio di leale collaborazione (cfr. ancora sentenza n. 177 del 1988), non a caso espressamente richiamato anche dall'articolo 120, secondo comma, ultimo periodo, della Costituzione a proposito del potere sostitutivo "straordinario" del Governo, ma operante piu' in generale nei rapporti fra enti dotati di autonomia costituzionalmente garantita. Dovra' dunque prevedersi un procedimento nel quale l'ente sostituito sia comunque messo in grado di evitare la sostituzione attraverso l'autonomo adempimento, e di interloquire nello stesso procedimento (cfr. sentenze n. 153 del 1986, n. 416 del 1995; ordinanza n. 53 del 2003)» (nello stesso senso si vedano le sentenze n. 69/2004 e n. 165/2011). Ebbene, alla luce dell'orientamento espresso dalla Corte costituzionale con le su citate pronunce, e' di tutta evidenza come il comma 28 in esame non e' conforme alla Costituzione ed in particolare contrasta con l'art. 120, comma 2, anche in combinato disposto con l'art. 117, commi 3 e 4, cost. Non solo si prevede un potere sostitutivo in assenza dei presupposti tassativamente indicati dall'art. 120, comma 2, Cost., ma si ammette l'esercizio del potere sostitutivo da parte dello Stato con riguardo a materie che esulano dalla competenza statale, essendo gli obblighi invocati dalla norma in parola (il cui inadempimento sta alla base del potere sostitutivo di cui si tratta) riconducibili nell'ambito materiale di competenza esclusiva delle Regioni, con particolare riferimento alla materia ordinamento degli enti locali, cio' in ulteriore violazione dell'art. 117, commi 3 e 4 Cost.